- IL TEATRO, I TEATRANTI E GLI SPETTATORI
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29.06.2014
LUIGI DADINA
Per me non ha senso pensare di fare spettacoli partendo dalla valutazione delle particolari fasce di pubblico che si vorrebbero coinvolgere.
Io credo che gli spettacoli si creino quando una necessità, un urgenza, ci muove. Solo così si può creare un teatro vero. Penso che questo si possa dire anche del nostro "Pantani". Una volta che lo spettacolo è nato abbiamo però capito, sin dalle prime repliche, che avremmo potuto avere un pubblico, anche, diverso da quello teatrale. Allora in diverse occasioni abbiamo lavorato per sostenere e aiutare chi ci ospitava, a coinvolgere fasce di spettatori che abitualmente non frequentano i teatri. Questo è successo anche a Casalecchio dove il teatro, la città, avevano progettato una serie di avvenimenti sportivi e culturali, tra cui le repliche del nostro spettacolo, e messo in opera un sistema comunicativo che favorisse l'incontro tra questi due ambiti differenti d'interesse, il teatro e lo sport. Questo ha fatto si che ogni evento moltiplicasse e arricchisse l'altro.
E' sempre replicabile questa modalità di relazione con gli spettatori? Certo che no. Ma questo tipo di situazioni ci suggerisce di ragionare sulla necessità di uscire dalle convenzioni relative alla comunicazione e al modo di proporre i nostri lavori. Ci dice che ogni volta dobbiamo cercare lo spettatore, gli spettatori per i nostri spettacoli. E anche questo fa parte della creazione di un opera.
Su economia e teatro... partirei da quello che dichiaravano Giorgio Strehler e Paolo Grassi a metà degli anni cinquanta: il teatro deve essere considerato come una necessità collettiva, come un bisogno dei cittadini, come un pubblico servizio alla stregua della metropolitana.
Quando si dice che lo stato paga sempre una parte del biglietto di uno spettatore che va a teatro, si dice una cosa vera. Ma bisognerebbe sempre bilanciare questa affermazione pensando a quali benefici si ottengono con questa spesa. Quella parte del biglietto che paga lo stato equivale veramente a un servizio? Il teatro ha un valore, come lo deve avere il sostegno, l'impegno economico profuso alla viabilità pubblica. Usando una metropolitana si risparmia una quantità enorme di energia se messa in raffronto a quella utilizzata da chi percorre da solo in auto le vie delle nostre città. Io continuo a pensare che sia giusto continuare a investire denaro pubblico per sostenere la mobilità collettiva. Per il teatro, anche se i tempi sono cambiati, penso che rimanga valido, in modo netto, il principio enunciato da Grassi e Strehler allora. Nonostante sia diventata un'arte, un linguaggio che non sta al centro del sistema comunicativo e relazionale contemporaneo, e forse proprio per questo, il teatro mantiene intatta la sua funzione di servizio nei confronti della società contemporanea. Contrariamente a quello che qualcuno afferma, io penso che andrebbe allargato il contributo pubblico anche ad altre forme artistiche, ad esempio alla musica contemporanea, anche a quella così detta non colta.
In merito all'idea che ritorna fuori anche oggi, alla riflessione che porta a dire, una volta era meglio, c'era un pubblico, c'erano istituzioni più vicine a noi, ora è tutto più difficile....
Mi vien da dire che è vera sì e no, ma poi sopratutto mi vien da dire, proprio no. Ogni epoca muta le forme della propria rappresentazione, delle proprie politiche culturali, le nuove generazioni spingono per mutare i contenuti dell'arte, le sue forme organizzative, politiche. Ogni epoca storica, ogni generazione si trova a fare i conti con le difficoltà proprie. Ma se sappiamo ascoltare sappiamo che non è deserto quello dietro di noi.
Noi che abbiamo vissuto diverse epoche teatrali dobbiamo sapere bene che ci sono sempre nuove e continue e mutevoli realtà che si presentano all'orizzonte, che così come si affacciano alla vita si affacciano all'arte, alla politica e all'organizzazione dell'arte, del nostro sistema teatrale. Se guardiamo e parliamo a questi stranieri che s'affacciano, ci sentiremo meno soli, se poi con loro dialoghiamo troveremo altre soluzioni, e forse capiremo meglio noi stessi e gli errori che stiamo facendo. Una volta, per me, era diverso, non meglio, non peggio. La qualità di quello che riusciremo a fare, oggi dipende in gran parte ancora da noi. Non credo che essere in questo preciso periodo di crisi economica sia come essere di fronte a un evento catastrofico in grado, quello sì, di mettere in dubbio la nostra esistenza.
Non stiamo attraversando una guerra mondiale, potrebbe accadere, anche questo sappiamo, ma ora non è così.
Poi ripeto ancora, noi teatranti dovremmo guardare con curiosità a ciò che avviene nel mondo della musica. Un mondo che della riproducibilità della propria arte ha fatto il motore della propria economia. Mondo che oggi di fronte alla sproporzionata capacità tecnica di riproduzione, in gran parte gratuita, deve riorganizzare i propri modelli economici. Un mondo che sta tornando alla necessità economica delle esibizioni dal vivo. Pochissimi i gruppi che possono reggere grandi numeri, i palazzetti.
Quindi anche il mondo della musica si sta riorganizzando in un modo non così lontano dal nostro, quello del teatro.
Noi artisti cerchiamo sempre luoghi dove poter far nascere il nostro teatro, solo li c'è l'innesco perché poi l'incendio, il teatro, l'incendio divampi. Spesso, almeno per gli artisti che sono qui oggi, le Ariette, Paola e Stefano, per me, per .........., ognuno di noi ha cercato, sta cercando, luoghi non abitualmente teatrali da abitare, da eleggere a luoghi del proprio teatro. E a ogni luogo corrispondono persone, spettatori diversi. Questo non significa certo il rifiuto di portare il proprio lavoro in teatri ufficiali, in luoghi canonici, anzi ognuno di noi ha necessità di girare di più, di entrare anche in contatto con teatri strutturati in maniere classica. Ma nonostante le differenze di grandezza, di numero di persone coinvolte nei nostri progetti, noi così diversi, stiamo qui a testimoniare l'esistenza di un teatro che nella costante ricerca di un luogo da fondare e da abitare per il proprio teatro traccia un costante peregrinare tra situazioni, teatri e case costantemente costruite, da Ravenna, al deposito attrezzi delle Ariette dove cinquant'anni fa nessuno, ma proprio nessuno avrebbe immaginato che sarebbe nato e prosperato un teatro, degli spettatori, una istituzione così impotante e necessaria per la città di Bologna, per il nuovo percorso di Alessandro che ha osato portare e far nascere, ri-nascere il proprio teatro, nelle chiese, in un circuito così lontano da tutte le convenzioni e certezze di un circuito e di un pubblico teatrale solido, cittadino, colto, abituato. Ai villaggi delle Albe, da Dioll Kadd, a Scampia alcuni anni orsono o come a Lido Adriano dove io ho trovato la mia particolare ragione di costruttore di teatro. E questo filo che qui ci lega ci unisce pure a una lunga pratica di noi teatranti, come quando Leo elesse Marigliano a proprio luogo di creazione o al nomadismo dell'Odin o a altre mille storie che raccontano della necessità di molti artisti di cercarsi o inventarsi luoghi dove poter accendere la fiamma della creazione.