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23.03.2014
MASSIMO MARINO
NELL'OMBRA
Teatro teatranti spettatori:
coro per voce sola
Si spengono le luci. Si apre il sipario. Si accendono altre luci, sulla scena.
"Amici, concittadini, romani! Prestatemi orecchio.
Sono venuto a seppellire Cesare, non a farne l'elogio..."
Lo spettatore è già addormentato
dal ronzio antico, della politica.
Un gabbiano, stridente, gli sussurra:
Esci con me, in volo sul gran teatro del mondo -
ti porterò oltre queste strette mura
oltre il buio, nel sole.
Una marionetta colpisce
con una falce il gabbiano:
la danza della vita
la puoi vedere solo
tra la tela dei nostri scenari
nel nostro dinoccolato dimenarsi
retto da fili - nella nostra
grazia senza umanità
fatta di ritmi perfetti - di sospensioni sognate.
Uno specchio. Forse
presto in frantumi. Un colpo
di spada. Un pagliaccio
sfonda il cielo di carta e grida:
aiuto - sto male -
sanguino succo di mirtillo
(Ricordi il dottor Dappertutto,
Vsevolod Mejerchol'd,
nei cabaret di Pietroburgo,
prima della Rivoluzione,
prima dello staliniano
plotone di esecuzione?
Il baraccone Balagancik Balagancik il baraccone)
Togli, togli di scena
non mettere!
- disse Carmelo, cantore di apostoli visionari
di bandiere rosse e incendi,
mentre gridava: Bene!
tra quattro modi russi di morire in versi -
Sprofonda nella voce ferita
nella terra del tuo dialetto
(sussurra la maga nera Ermanna
simile a bianca calla vestita Montanari).
Non rappresentare, essere
(ripetono in duetto, con Carmelo,
mentre un'altra ChiaraGuidi voce
mantica melodiosa
con la stessa romagnola ruggente
cadenza di campagna
un po' preghiera un po' bestemmia
un po' viaggio nell'infanzia
senza parola dallo stupor del mondo
in sospeso controtempo si accompagna)
Una spelonca - dice Aulo Gellio - è in Salamina,
isola dell'arcipelago, nel cui profondo Euripide
si nascondeva a comporre ivi dentro le sue tragedie.
Entrava quella spaventevole grotta
per entro alle cupe viscere della terra.
Angusta n'era la bocca, torte le vie, scoscesi i fianchi:
tutta per entro nera, orrida, disuguale...
Colà, scorto da un piccolo lumicino,
entrava Euripide tutto solo,
se non quanto seco era il furore poetico che vel portava.
Quivi era il teatro dove, prima che in Elide, in Corinto, in Atene,
rappresentava a se stesso le sue tragedie.
Questa la sotterranea caverna nelle cui sacre tenebre
co' poetici incantamenti richiamava dal vicino inferno
le ombre a comparire in palco e rifare
i medesimi fatti e misfatti di quando erano corpi vivi [...]
Quel silenzio, quell'orrore, quel buio,
quella stessa quasi moribonda fiammella del suo lumicino,
e quell'aver sopra 'l capo una montagna
e per tutto intorno pendentigli pietre mezzo divelte e rovinosi dirupi:
e con ciò la malinconia, lo spavento, l'orrore;
gli sumministravano le fantasie funeste,
le specie atroci, le imagini fiere;
e le disperazioni e le smanie al farsi delle catastrofi e de' precipizi delle fortune reali [...]
e i lamenti e i compassionevoli guai de' miseri e de' moribondi.
Così le Muse gli si voltavano in Furie;
e tutto era quel che faceva lavorar dentro di sé il suo furore,
quel che dovevano proferir recitando i personaggi delle sue tragedie.
(secolo diciassettesimo, Bartoli Daniello,
la visionaria terrorista precisione gesuita)
Seguo con il fiato sospeso
il Matto sulla fune sulla piazza
l'acrobata lanciarsi come angelo
verso il cielo del tendone.
Qualcuno - forse? - aspetta che cada
Un sussulto sulla sedia.
Gli occhi dello spettatore
sembrano aprirsi per un attimo
(l'occhio interiore, inutile
a dirsi, è spalancato).
Come in un lampo
gli appaiono, e parlano,
ognuno un suo discorso,
un sipario sdrucito,
tele dipinte accatastate in magazzino
una macchina del vento, una del tuono
carri meravigliosi che portarono Orlando alla pazzia
e Astolfo a recuperare il suo senno sulla Luna
fendendo il pubblico di piazze di tutto il mondo
nell'incantesimo barocco e futuro del maestro Ronconi.
Appaiono il palcoscenico e la sua polvere,
una gloriosa carretta di comici vaganti,
una carrozza d'oro tra strade appena segnate
dell'Altro, del Nuovo Mondo
e un attrice che per vivere
è costretta a scegliere tra l'amore e l'arte
(il mito - scolorito? - della commedia dell'arte
il mito - dimenticato? - della Magnani)
L'attore,
l'attrice,
il direttore di teatro
la poltrona nuova di velluto,
la gradinata telescopica,
la poltrona di legno abbandonata
il ragazzino deportato con la classe
a vedere i classici
le polpette piccole ben fritte
che si mangiavano per parlare
di Teatro da mangiare?
(dalle parti delle Ariette
dove il palcoscenico
è una tavola imbandita:
le storie personali
danzano e soffrono
intorno agli spettatori)
- e c'era il Faustus
di Grotowski
intorno al desco di un'ultima cena
e Akropolis il Lager che riempiva
lo spazio tra gli spettatori
di tubi di stufa per il sacrificio -
.
Sussurra il poeta camminante,
angelico o diabolico Mangiafuoco del teatro vagante
(lo chiameremo, per intenderci,
Scabia Giuliano, padovano):
esci / il vero teatro
è nei boschi
è nelle strade
è dentro di te
e negli altri
perché teatro è anche...
E svanisce dietro una collina
verso le stelle, su un cavallante destriero di cartapesta.
Sveno, del monte Ventasso, intona,
timido, sottovoce, gli occhi azzurri:
Ed ecco un murator sul foglio chino
con mano incerta tenta di vergare
una risposta a te poeta fino
e con metrica i versi far baciare
per dire pane al pane e vino al vino
son poco colto per poterlo fare
ma mi trovo fra i poeti annoverato
del club che a Marmoreto hai fondato
Il club fondato dal poeta camminante
che sui monti d'Emilia ove il gran vento
assai spesso ne reca molto danno
portò il teatro del Gorilla Quadrumàno
su un palcoscenico grande dieci paesi.
E conobbe Sveno, occhi azzurri,
nome di principe della Gerusalemme Liberata,
che mai ha smesso di scrivere versi
di suonare, cantare, fare un po' teatro
come sopravita, Sveno che scrive:
Tengo una musa anche se non son poeta
Celata sempre qui nel pensier mio
La interrogo per raggiungere la meta
Della poesia che amo e che desio.
E suo padre Minghin,
volto intagliato di scalpellino,
canta su un'antica aria di Maggio
drammatico, tra i castagneti:
A Marmoreto demmo il primo canto
A Busana pel secondo fum chiamati
A Cervarezza il terzo pure canto
Caprile di Ligonchio ritornati
A Cinquecerri il quinto con il vanto
Di Vaglie il sesto che fummo invitati
E a Cola fu il settimo paese
Quattro settembre poscia si sospese.
Le tappe di un girare tra piccoli luoghi conosciuti
paesi borghi frazioni
(ora deserti, pieni di vecchi?)
paesani che rappresentano per paesani
travestiti da cavalieri antichi
con elmi da pompieri e lunghe penne
Teatro delle radure.
Teatro che muove lo spettatore.
Teatro che gli promette il paradiso adesso
Paradise Now
(quando si sognava
- vivendo il teatro, Living Theatre -
che dalla scena allo scontro
per l'isola Purpurea
per la Città del Sole
il salto stesse nel rito
dei nostri corpi uniti
immediato - tutto e subito -
necessario).
Il buio - di nuovo.
Il silenzio.
Un teatro interiore.
L'ombra di Amleto.
L'ombra di Leo che fa Amleto.
L'ombra di Leo che fa Totò che fa Amleto.
L'ombra di Castellucci
(Carmelo, dicono, non lo amava,
non ne capiva il frastuono,
il corpo esploso)
l'ombra di Castellucci che ripete:
il ronzio del coro
che spiega
che banalizza
che riporta il sordo rantolio delle selve alla luce banale della polis
(la voce del critico è come il ronzio del coro?)
Nietzsche - il filosofo -
Nietzsche che diventerà pazzo
specchiandosi negli occhi di un cavallo,
che pensa:
il mito è stato distrutto mettendo
l'uomo comune in scena
Euripide,
che tutto capisce, distingue, giudica
e il filosofo - il pensatore,
Socrate che critica.
Salta scontorto sul palco
frulla identità luoghi comuni
RezzaMastrella boccoli e acida vocina
e grida: lo spettatore è l'anello debole
della catena: tutto tramonta davanti a lui.
Un'ombra, tra le tante,
mi sussurra
(o forse è l'uomo che vendette l'ombra
e scoprì che tra gli umani
senza quella banale oscura propaggine
non si poteva vivere
Peter Schlemhil),
mi ripete cantilenando
correndo con gli stivali delle sette leghe
(ah, perduti spiriti romantici!)
mi ripete:
la banalità del pensiero del coro, vile, che mai interviene,
che incarna il buon senso comune, la doxa,
nasconde l'orda assassina delle origini
il culto del sacrificio umano,
l'orrore sacro del teatro
della vita agra.
Lo spettatore si addormenta in un palchetto.
Appare Donna Anna a rivelare
in un capriccio grottesco alla maniera di Callot
l'amore, il suo, per il superuomo Don Giovanni,
il seduttore, l'assassino.
Si vede un teatro in fiamme
e il regista radicale che ripete:
lo spettacolo esiste solo
nella mente dello spettatore.
è un incendio
nella mente dello spettatore.
Senza coro. Senza coro.
I gesti della solitudine contemporanea.
Tragedia Endogonidia
Tragedia che si autoproduce
E se stessa brucia.
Eppure Martinelli con il coro balla
E chiede a Dioniso,
lo stravolgitore, l'assassino,
il rivelatore scaravoltatore
di tornare a muovere i corpi
ad agitare a dare vita.
Raccoglie antichi gesti come perle
SieniarchitettodanzatorediFirenze.
Combatte contro i morti viventi
PunzoPinocchio incarcerato
in cerca di don Chisciotti per sfidare
le regole di un mondo
alla felicità poco attrezzato.
Partecipo a un laboratorio
E mi sento un attore.
Scopro o smarrisco qualcosa di me?
Nella poltrona sono re:
so che tutto quello
che avviene,
anche ciò che non capisco,
è per me.
Dalla scena mi chiedono di alzare la mano,
di salire sul palcoscenico,
e mi ritraggo:
se devo rischiare, se devo giocare,
se devo far finta di partecipare,
meglio rovinarsi con i videopoker
(cu l' machinette, grazie - gettidisangue e turnisi -
fantasmi della fibre baresi parallele).
Il mio lavoro, qui, guardare,
è già troppo faticoso:
dare consistenza ai fantasmi.
Abbandonarmi, farmi riempire.
E poi a casa
sotto una luce che disegna
un altro palcoscenico sul foglio
far rivivere le ombre
con la penna con il computer
o solo nella mia mente
nel mio corpo
nella mia anima (qualsiasi cosa voglia dire la parola).
Riguardare. Fermare l'incanto.
Moltiplicarlo.
Commentare sorseggiando
Un bicchiere di tè.
Fumando un sigaro
sotto il fumo grigio delle città
noi che veniamo dai boschi neri.
La supermarionetta allo specchio
è il critico.
Lo spettatore
- mi sussurra il teatro,
mentre sento il coltello battere
sul tagliere delle Ariette
e aspetto di sciogliere
il terrore e la pietà,
la pietà e il terrore
in un piatto di tagliatelle -
lo spettatore - mi sento dire -
è l'autore dei nostri sforzi
è il nostro personaggio
un oscuro voyeur,
vizioso e passivo,
il nostro carnefice,
il nostro fratello,
ipocrita, smagliante,
rinunciatario, sadico, sognante,
a noi somigliante.